Quando raccontarsi fa rima con curarsi

30 maggio 2012 - Francesca Broccoli
É un dato ormai noto e condiviso che la possibilità di raccontare a sè e agli altri una storia coerente e integrata sulla propria vita costituisce un aspetto di salute (o di ritrovata salute) per ciascun individuo.
Raccontare di sè permette di dare forma all’Io e di costruire una versione individuale della propria vita, nutrendo e valorizzando quegli aspetti del Sè che ci consentono di percepirci in narrazione (e, di conseguenza, dotati di senso storico, in movimento e in evoluzione).
Non si tratta, però, di uno sfogo, ma della possibilità di attivare un’azione che ha valenza terapeutica: l’autobiografia diventa curativa quando si dà voce ai tanti io che abitano ciascuno di noi.
Questo nello specifico quando:
Il lavoro, nei colloqui psicologici, è sfidare il racconto sul suo stesso terreno per rendere mobile ciò che è fisso, interessante e dicibile il non detto e non dicibile. In terapia è diventato frequente lavorare con le storie delle persone. Anche la terapia familiare si avvale delle storie che emergono, si intrecciano, si combinano e si scontrano nelle famiglie.
Cosa si può ottenere attraverso un’analisi delle storie della propria vita? Attraverso l’analisi delle storie raccontate dai membri della famiglia è possibile comprendere:
Ci si prende cura delle storie prodotte e portate dalle persone. Il sintomo o il problema non domina la scena, perché è inserito in una storia e lì riacquisisce senso, dinamicità, relatività.
Quando le storie che le persone usano per descriversi non rappresentano l’esperienza quotidiana che vivono, possono emergere problemi, disarmonie e sofferenze. Il cambiamento avviene attraverso la costruzione e la co-evoluzione di nuovi significati. Tra gli strumenti autobiografici che i terapeuti posso usare e proporre ai pazienti vi sono la stesura di racconti scritti, di diari o memorie, ma anche l’utilizzo di dispositivi grafici ed espressivi.
L’utilizzo di strumenti autobiografici non sempre è necessario, né indicato in modo indistinto, ma quando maneggiato con lucidità e consapevolezza tali dispositivi possono rivelarsi catalizzatori nell’accesso a dimensioni rilevanti del Sè, che sollecitate solo attraverso le tradizionali interviste cliniche verbali potrebbero emergere con un maggior impiego di tempo e fatica.
La comunicazione è un fenomeno di assoluta complessità. Tutto ciò che può contribuire ad ampliare il ventaglio di strumenti e opportunità espressive nella relazione terapeutica, rappresenta un bagaglio conoscitivo fondamentale, sia per il terapeuta che per i pazienti che a lui/lei si affidano.
É un dato ormai noto e condiviso che la possibilità di raccontare a sè e agli altri una storia coerente e integrata sulla propria vita costituisce un aspetto di salute (o di ritrovata salute) per ciascun individuo.
Raccontare di sè permette di dare forma all’Io e di costruire una versione individuale della propria vita, nutrendo e valorizzando quegli aspetti del Sè che ci consentono di percepirci in narrazione (e, di conseguenza, dotati di senso storico, in movimento e in evoluzione).
Non si tratta, però, di uno sfogo, ma della possibilità di attivare un’azione che ha valenza terapeutica: l’autobiografia diventa curativa quando si dà voce ai tanti io che abitano ciascuno di noi.
Questo nello specifico quando:
- ci si prende cura di loro, stando in relazione (quindi condividendo e negoziando il prodotto narrativo che ne emerge),
- cercando una ri-composizione inedita dei contenuti o dei significati che caratterizzano la storia.
Il lavoro, nei colloqui psicologici, è sfidare il racconto sul suo stesso terreno per rendere mobile ciò che è fisso, interessante e dicibile il non detto e non dicibile. In terapia è diventato frequente lavorare con le storie delle persone. Anche la terapia familiare si avvale delle storie che emergono, si intrecciano, si combinano e si scontrano nelle famiglie.
Cosa si può ottenere attraverso un’analisi delle storie della propria vita? Attraverso l’analisi delle storie raccontate dai membri della famiglia è possibile comprendere:
- i rapporti che li connettono;
- le spiegazioni che si danno di tali rapporti;
- le idee e le rappresentazioni che hanno ereditato e costruito nel tempo;
- le definizioni con cui si presentano all’esterno;
- i valori e le dinamiche relazionali ad esse collegati.
Ci si prende cura delle storie prodotte e portate dalle persone. Il sintomo o il problema non domina la scena, perché è inserito in una storia e lì riacquisisce senso, dinamicità, relatività.
Quando le storie che le persone usano per descriversi non rappresentano l’esperienza quotidiana che vivono, possono emergere problemi, disarmonie e sofferenze. Il cambiamento avviene attraverso la costruzione e la co-evoluzione di nuovi significati. Tra gli strumenti autobiografici che i terapeuti posso usare e proporre ai pazienti vi sono la stesura di racconti scritti, di diari o memorie, ma anche l’utilizzo di dispositivi grafici ed espressivi.
L’utilizzo di strumenti autobiografici non sempre è necessario, né indicato in modo indistinto, ma quando maneggiato con lucidità e consapevolezza tali dispositivi possono rivelarsi catalizzatori nell’accesso a dimensioni rilevanti del Sè, che sollecitate solo attraverso le tradizionali interviste cliniche verbali potrebbero emergere con un maggior impiego di tempo e fatica.
La comunicazione è un fenomeno di assoluta complessità. Tutto ciò che può contribuire ad ampliare il ventaglio di strumenti e opportunità espressive nella relazione terapeutica, rappresenta un bagaglio conoscitivo fondamentale, sia per il terapeuta che per i pazienti che a lui/lei si affidano.